Una nazione di lettere

Ieri sono stata invitata a una festa di matrimonio su Zoom. Non l’ho usato molto dall’inizio della pandemia, se non un paio di volte per insegnare, e mi era sembrato una cosa un po’ fastidiosa e alienante a cui mi sarei dovuta abituare. Un mese prima ero stata invitata a un funerale di un amico fraterno su Zoom e mi ero rifiutata di partecipare. Mi sembrava inaccettabile, quasi osceno, condividere un momento intimo di lutto con la mediazione di uno schermo. E temevo che anche la gioia di due persone che decidono di passare la vita a conoscersi non fosse tangibile con un computer in mezzo. Il matrimonio vero e proprio si era svolto in Nigeria, a Ife.

L’etimologia della parola nazione è chiaramente latina: natio = nascita, “termine che individua varie comunanze che legano gli individui sì da trasformarli in popoli”. Quindi l’identità di nascita in uno stesso luogo geografico, la lingua che si parla, la religione, gli usi e di costumi, sono, mi conferma il dizionario, “elementi che aggregano gli individui in un gruppo di appartenenza dove l’io individuale convive con il noi collettivo”. Posso dire con serenità e senza nessun rimpianto di non avere radici in un luogo, per vari motivi: da molti anni non ho famiglia di origine per destino e per scelta, non me ne sono creata una per scelta, sono atea, dunque della religione comune non me ne faccio niente, e per lavoro, che poi è la vita, uso due lingue, quindi anche qui non ci siamo. Ho imparato male vari alfabeti, tra entusiasmo e pigrizia, ma ho scoperto in me una predilezione forse infantile per i luoghi dove non capisco la lingua. Dopo tanti inverni fatti di inglese e alfabeti locali in varie megalopoli in India, un anno in Egitto e uno in Israele, lunghe permanenze nei boschi americani e tanti avanti e indietro, sono sbarcata per la prima volta in Grecia un anno fa. E poco dopo sono finita per caso su un’isola dove tutti vengono da altrove, molti sono emigrati e tornati, tanti parlano più lingue, e i vecchi marinai hanno vissuto in un altrove perenne e sanno raccontarlo. Nel giro di due settimane ho deciso di trasferirmi lì. Mi sono ritrovata a parlare quotidianamente italiano, inglese, francese, e anche lo spagnolo, che non so (con l’assicuratore). Di greco ho un vocabolario che sta in cinque mani però finalmente riesco a leggere parole che ovviamente non capisco. Ma quando mi siedo in un caffè e ascolto i vicini di tavolo entro in una specie di trance un po’ ebete. Questo non capire, invece di farmi sentire isolata, si trasforma spesso nella sensazione rassicurante di poter capire tutto, un giorno, e di essere ovunque. In più c’è il vantaggio favoloso di potersi concentrare sulla musica delle parole, invece che sul significato.

Quindi il concetto di nazione in senso stretto per me non ha tanto senso.

E poi, siccome conosco prevalentemente persone che sono nate da qualche parte e poi sono finite in un paese, nazione, o continente diverso, questo ritrovarsi su Zoom in uno spazio condiviso mi ha fatto pensare al fatto che le mie amicizie quasi sempre nascono, fanno nazione, e hanno una lingua comune nei libri. E io in quella nazione di lettere faccio casa.

Il matrimonio su zoom è stato una cosa emozionante, anche perché non ho mai visto di persona gli sposi, ma avevo tradotto lo sposo e anche il suo migliore amico. C’erano state molte mail – avevo scoperto il suo libro grazie a un altro scrittore e tempo dopo ero riuscita a trovargli un editore, una casa. Da allora c’era stato un flusso regolare di mail, una corrente di rispetto e gratitudine e piccoli scambi di ‘small mercies’, come le chiama lui, cortesie e parole che danno significato al mio lavoro. Insomma, la traduzione aveva portato affetto e amicizia, come mi capita spesso, e quello scrittore adesso fa parte della mia ‘comunità di umani’, come la chiama Le Guin.

Home isn’t Mom and Dad and Sis and Bud. Home isn’t where they have to let you in. It’s not a place at all. Home is imaginary.

Home, imagined, comes to be. It is real, realer than any other place, but you can’t get to it unless your people show you how to imagine it—whoever your people are. They may not be your relatives. They may never have spoken your language. They may have been dead for a thousand years. They may be nothing but words printed on paper, ghosts of voices, shadows of minds. But they can guide you home. They are your human community.

(from Dreams Must Explain Themselves: The Selected Non-Fiction)

Mi piace tenere il naso per aria e pensare che da qualche mese nel cielo ci sono più creature alate fatte di piume che di metallo. Però faccio fatica ad accettare il fatto che il mondo non voli più, o comunque molto meno. Fino a pochi mesi fa mi capitava regolarmente di guardare un aereo fare i suoi disegni bianchi passando in cielo come niente fosse e pensare al prossimo volo, al prossimo paese in cui andare o tornare come niente fosse. Sono sempre contenta in quell’uovo, come diceva Manganelli: “L’aereo va in India, e poiché io sono contento in quell’uovo deposto nei cieli da una mirabile gallina iperurania, anch’io vado in India.” L’ultimo volo che ho preso, tra l’altro, è stato per l’India, in gennaio. L’eccitazione dei viaggi non veniva tanto dal luogo quanto dalle persone che avrei visto. Prendevo l’aereo come se fosse un treno, la borsa sempre pronta, le scommesse per non superare mai i sette chili a prescindere dalla durata del viaggio. Quella cosa è finita, secondo me, e parlare di un ritorno alla normalità mi sembra un po’ sciocco, visto che non ci sarà niente di normale in futuro se non abituarsi a un’incertezza perenne. E poi non era normale tutta quella frenesia, quella facilità di saltare tra nazione e continenti. Così ho dovuto ripensare al mio modo di vivere, che era fatto di mobilità. Per ora mi sembra di aver capito che il mio mondo stanziale non si è ristretto, anzi.

Thoreau diceva che nulla fa sembrare la terra – e gli orizzonti mentali, aggiungerei – spaziosa quanto avere amici sparpagliati sul pianeta, “they make the latitudes and longitudes.”

Ho abitato in vari paesi e penso, dopo tanti traslochi e scatoloni e burocrazie e aerei e lingue nuove, e sempre senza smettere di tradurre e traslocare parole da una lingua all’altra, di avere trovato finalmente una casa, o perlomeno un posto dove mi sento a casa. Per ora è così.

La mia nazione adottiva è fatta di una casa bianca e blu, un giardino grande con pini e pistacchi, il mare che si vede dal balcone, e soprattutto una comunità di umani che, insieme ai vecchi amici nei vari continenti, fanno famiglia.

Se il concetto di nazione è legato etimologicamente al luogo dove si nasce, mi pare che la mia rinascita sia iniziata bene.

Gioia Guerzoni ha 51 anni, abita su un’isola greca, traduce da più di  25 e le piace ancora molto. Lavora prevalentemente dall’inglese per editori grandi e piccoli: tra i suoi autori Teju Cole, Jenny Offill, Siri Hustvedt, Saki, Iris Murdoch. Ha curato un’antologia di autori indiani, il volume di Passenger India e sta lavorando a una collana di letteratura africana. Andare a caccia di libri da tradurre e lavorare a progetti editoriali con altre persone sono i suoi passatempi preferiti.

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