I figli del diluvio (Lydia Millet)

Per tradurre questi adolescenti scorbutici, a tratti spietati, di rado teneri e sempre ferocemente consapevoli delle sorti del pianeta, ho dovuto prima di tutto ricordarmi com’ero io. Spietata ero spietata, scorbutica senza dubbio, tenera mai – infatti schifavo il mio nome trovandolo melenso – ma del pianeta mi interessava solo il fatto che potesse aprirsi come una grande cartina geografica in cui potevo scorrazzare liberamente (ero una viaggiatrice precoce), non la data di scadenza, mi affascinavano le orme degli esploratori, non l’impronta di carbonio. Finché non ho letto Huxley, ma avevo vent’anni, non sedici, e forse ero più interessata agli esperimenti lisergici che alle distopie ecologiche e all’ingegneria sociale. Non so se siano adolescenti tipici, ma ne ho conosciuti abbastanza nei miei soggiorni americani per farmi un’idea precisa: rabbiosi, svegli, piuttosto informati – sul clima, sui diritti delle donne, delle minoranze, dei gay, degli animali ecc. La loro voce è sempre un po’ fredda e distaccata, e per i grandi nessuna pietà. Perché li hanno traditi. “Eppure, tempo dopo, ci eravamo resi conto che i nostri genitori non avevano fatto proprio niente. Si erano dimenticati la cosa più importante, nota anche come: il futuro”. E i poveri vecchi? – che poi hanno più o meno la mia età. I genitori sono patetici. Si agitano, tradiscono, dicono “andrà tutto bene”, quando è evidente che sta andando tutto malissimo. Scriveva Huxley nel Mondo nuovo, uscito nel 1932 (incredibile, no?)

Le vittime veramente disperate dell’infermità mentale si trovano proprio fra gli individui che paiono normalissimi. Molti di essi sono normali solo perché si sono adattati al nostro modo d’esistenza, perché la loro voce di uomini è stata messa al silenzio in età così giovane che essi nemmeno lottano, né soffrono, né hanno i sintomi del nevrotico. Non sono normali, diciamo così, nel senso assoluto della parola; sono normali solamente in rapporto a una società profondamente anormale. Il libro è una condanna della mia generazione – che poi è quella della Millet –, incapace di vedere il baratro del futuro, così prossimo che in effetti è già qui: uragani, incendi, inondazioni, armi dappertutto. I “grandi” bevono e si fanno di coca ed ecstasy perché di fatto non sanno come vivere. I loro soldi non servono a niente se il mondo brucia. “I genitori si lamentavano, indignati. È stato tutto così improvviso, pensavano ci fosse più tempo. Molto di più. Di sicuro era colpa di qualcuno. Non degli scienziati, che avevano fatto del loro meglio, dice un padre. Forse dei politici. Probabilmente dei giornalisti”. E così i ragazzini, come tanti piccoli avatar di Greta Thunberg, tentano di salvarli, anche se non se lo meriterebbero. E i più piccoli addirittura – che non parlano come bambini, ma nemmeno come grandi – decodificano la Bibbia. “Allora, se Dio sta per natura, Gesù sta per scienza. Per quello dicono che Gesù è figlio di Dio. Non è davvero suo figlio. Dio non ha sperma”. I dialoghi sono tutti un po’ così, intelligentissimi ma mai spocchiosi, e poi fanno tanto ridere. Perlomeno, a me. Non a caso la Millet è amica di Jenny Offill da trent’anni. Stesso umorismo nero, stessa preoccupazione per il pianeta, declinata in modo diverso ma sempre presente.

Trovata la voce, l’altro problema erano i tempi – l’originale è tutto al passato remoto. Ma non solo, è anche alla prima persona plurale (andammo, camminammo ecc.: no, non si può leggere). Dopo varie prove e cambiamenti e confronti con la redazione ho optato per un presente storico, con imperfetto e trapassato qua e là durante i momenti di flashback o le azioni ripetute. Non facile ma mi pare che funzioni, anche per rispettare l’urgenza della questione climatica, che è adesso. Insomma, è un libro che ci fa sentire in colpa, e forse finalmente ci farà agire, ma è anche temperato da un briciolo di speranza, dalla fiducia che le nuove generazioni, ispirate dalla determinazione, dalla rabbia – la rabbia è protagonista, viva e salvifica – dall’attivismo di adolescenti straordinari, possano in qualche modo redimere e perdonare i nostri peccati. Infine, come scriveva Nabokov in Parla, ricordo: “Ho scoperto nella natura i piaceri non utilitaristici che cercavo nell’arte. Erano entrambe una forma di magia, entrambe un gioco intricato di sortilegio e illusione”. Ed essendo finita ad abitare su un’isoletta poco prima del Coronacene, che come un uragano silenzioso e immobile ha spazzato via musei, concerti, cinema e tante altre cose, ma non i libri – ho scoperto che la natura è davvero una salvezza e i bambini, con questa bizzarra traduzione della Bibbia e dell’Arca di Noè, ce lo ricordano.