Giostre, puzzle e altre storie (Rachel Trezise)

“Incosciente”, mi sono detta mentre accettavo di tradurre i racconti di Rachel TreziseFresh Apples in originale. Autrice gallese. 

Incosciente perché non conoscevo il paesaggio, perché per me quello strano paese dalla lingua del tutto incomprensibile, che spesso avevo sfiorato vagabondando in altre parti del Regno Unito, era solo un insieme confuso di e fantasie, come i tasselli di un puzzle quando sono tutti sparpagliati sul pavimento. Cymru, questo il nome nella lingua di ceppo gaelico, era nel mio immaginario il paese dei minatori, di Mago Merlino, di nove milioni di pecore su tre milioni di abitanti, della bandiera nazionale con il drago rosso uscito dalle fiabe e delle “vuote fattorie bianco-pecora addormentate strette” cantate da Dylan Thomas.

Ho iniziato a lavorare. Di tutti gli altri autori che ho tradotto conosco più o meno i paesaggi: l’America di New York e dei motel, l’Irlanda, la Scozia, le campagne inglesi, tanta India… mi piace osservare ed esplorare, in viaggio mi sento perennemente al cinema. Ma quei tasselli gallesi mi mancavano.

Nel giro di due mesi ero a Swansea per una residency fitta di impegni e incontri con scrittori locali. E la casa di Dylan Thomas, le pecore giallastre, il mare piombo. La birra S. A. Brains, da Samuel Artur Brain, il fondatore della brewery, poi diventata, Skull Attack, nomen omen. E le foto di I.C. Rapoport con le facce nere dei minatori dopo il disastro di Aberfan.

Finalmente vedevo e toccavo.

Un paio di settimane dopo scorazzavo in macchina con Rachel –  classe 1978, occhi chiari che spiazzano come la sua timidezza e il senso dell’umorismo –  per le strade della Rhondda Valley, dove sono ambientati i suoi racconti, pubblicati dall’editore Beit con il titolo Giostre, puzzle e altre storie.

Storie graffianti di perdita dell’innocenza, di adolescenti e giovani che tentano di sopravvivere al grigiore e al vuoto dei paesaggi postindustriali e a trovare vie di fuga diverse dalla fuga reale oppure alcolica o narcotica.

Sono stata sulle giostre del parco nel Bwlch dove  si ritrovano i ragazzini di Mele. Nel caffé citato in Puzzle – tre tavolini rotondi appiccicati alla vetrina, pareti impregnate di fumo, immaginette della madonna, macchina del caffé originale italiana. E’ tutto vero, i proprietari sono gli stessi ma non ricordano più la loro lingua, c’è il bancone ricoperto di panciuti contenitori in vetro pieni di caramelle dai colori psichedelici e persino la nutella nelle minuscole confezioni monodose che da noi non si trovano più.

Ho visto i paesaggi mozzafiato delle valli crivellate di miniere ormai chiuse, trasformate in musei di archeologia industriale. E sempre le pecore, dappertutto, e i ragazzini di cui parla Rachel, scugnizzi dalla pelle bianco latte che parlano a raffica mescolando il gallese e un inglese tagliente. Li ho osservati a lungo, sapendo che il colore delle loro parole sarebbe sbiadito in traduzione. Ma che altri dettagli, invece, sarebbero risultati più lucidi grazie al fatto che li avevo visti. Una passata di sidol sulle parole.

Nello stesso periodo ho conosciuto un altro autore che ho tradotto – questa volta meno da incosciente, anzi l’ho proposto io –  subito dopo la residency. Cynan Jones è un altro giovane prodigio gallese: il suo libro The Long Dry, è uscito da poco per Isbn edizioni con il titolo La lunga Siccità, romanzo di un giorno. Anche in questo caso, ho avuto la fortuna di vedere i suoi paesaggi, di sentire la sua voce – un inglese pulito come la sua scrittura ma sempre mescolato a una musicalità tipica del gallese, visto che comunque il bilinguismo è abbastanza comune. Cynan, anche nel parlato, usa una lingua scarna, a prima vista quasi semplice. Ho fatto ricorso a piccoli stratagemmi per evitare di diluire quei mono e bisillabi che suonavano alle mie orecchie – forse influenzate dal clima – come gocce di pioggia leggere e ritmate. Una lingua asciutta, che si muove in punta di piedi, al cui confronto il nostro italiano, così ricco di polisillabi, sembra una vecchia signora grassa e lenta. Ho cercato quindi corrispettivi più “magri”, asciugando gli aggettivi se erano troppi, a volte cambiando la punteggiatura, ho “tosato” come si fa con le pecore di cui, ovviamente, il libro parla. Con il consenso dell’autore, beninteso.  

E ho calpestato il paesaggio del libro, la terra fertile, le paludi in cui gli stivali affondavano, i boschi e le siepi che brulicano di vita e insetti e animali minuscoli e piante e fiori.

Così, grazie a tutto questo guardare e toccare e percorrere quel Galles che non conoscevo, i tasselli sono scivolati un po’ più facilmente al loro posto, aiutandomi a dipingere meglio – forse, spero – il paesaggio della traduzione. 

La nota del traduttore