Tempo variabile (Jenny Offill)

Ho iniziato a tradurre Tempo variabile durante un trasloco.

Un trasloco che mi avrebbe portato in un altro paese, quindi ridotto ai minimi termini; ma richiedeva per questo una concentrazione intensa e una selezione severa e rapida.

Avevo una data limite ma non la data vera e propria: dovevo preparare tutto e poi aspettare il via ai blocchi di partenza, pronta a scattare per spedire i pacchi, comprare il volo, or­ganizzare i lavori ecc. Insomma, avevo una settimana oppu­re un mese. Alla fine, un mese è stato il tempo richiesto dalla prima stesura. Un periodo di limbo, di attesa, di euforia, di “boh” continui e qualche volta anche di paure.Forse perché ero circondata da scatoloni ricoperti di ideo­grammi recuperati sotto casa al supermercato cinese Ciao Mi (nome favolosamente vago e buffo ma anche minaccioso, degno del romanzo) – ho cominciato a pensare a quell’insie­me di righe dense di significati come se fossero delle moder­ne scatole cinesi, collegate ma indipendenti e impilabili. All’inizio ero un po’ a disagio con quei frammenti – uniti, certo, da un filo rosso, ma pur sempre frammenti – e mi sembrava tutto faticoso, libro e trasloco, anche se a me piac­ciono i traslochi perché butto via o regalo un sacco di roba. Tranne che nei libri, tendo all’ascetismo. La cosa che non mi piace è vivere nel disordine. Sia il libro sia la casa erano in quel momento la rappresentazione tangibile di un caos ordinato. Per non perdere la testa, e forse proprio perché mi riesce abbastanza bene stare a cavallo di due paesi e non avere giornate regolari, nella traduzione mi sono lasciata guidare da un ritmo alterato, perché il libro intero è aritmi­co o sincopato, non solo per il contenuto. Il procedimento era questo: caffè, pagina, selezione di libri da portare via, altra pagina, selezione di altri libri, pa­ gina, posa dei libri nello scatolone, pagina, selezione della biancheria, sigaretta, pagina, libri ecc. E siccome gli oggetti­ parole da riporre nell’altra casa­lingua erano culturalmente stratificati e a volte oscuri, continuavo a chiedermi come farli stare comodi. Per esempio, doomer o prepper o glamping, parole da spiegare, sì, ma non troppo, in modo da mantene­re quella cadenza secca, carveriana ma molto più umoristi­ca. Un umorismo nero che mi fa sempre ridere. D’altronde, la protagonista è generosa, un po’ sperduta, si fa un sacco di domande (forse troppe), sa tutto di spie e trucchi di soprav­vivenza, porta mutande da supermercato, il bucato non le viene mai bene, non si sente mai all’altezza e però se ne fre­ga anche un po’. Insomma, potrebbe essere la mia migliore amica. È stato divertente passare le giornate con Lizzie. Jenny Offill è diventata davvero un’amica negli anni. Per un po’ siamo state vicine di casa; e lavorare al suo libro è stato come sentire le sue storie e le barzellette nerissime, fare la spesa insieme e uscire sempre con le cose sbagliate, senza i prodotti fondamentali per cui eravamo andate al supermer­cato, guardarla cucinare roba che finiva al cane, o commen­tare le terribili notizie di politica e lavorare di fantasia su dove fuggire. E poi avevamo scoperto la stessa passione insana per i manuali di sopravvivenza spicciola – a partire dalle Giovani marmotte – e per gli aggeggi delle spie. Sinceramente senza questa conoscenza un po’ speciale non so come avrei tradotto il suo libro. Di sicuro in modo diverso e con molta più fatica.Nel frattempo, la mia casa sembrava esplosa perché la­ sciavo gli scatoloni a metà, aperti per recuperare le cose che mi servivano, con scritte improbabili tipo miscellaneous blankets – socks, stuff, clothes + whatever perché lo spedizioniere non parla italiano. E anche la traduzione sembrava esplosa, un miscuglio di slogan, haiku, barzellette e manuali di sopravvivenza, te­nuto insieme da una scrittura ben precisa, quasi maniaca­ le. Nei primi giorni, arrivata a sera avevo molti “gialloni”. Nel mio gergo, sono i dubbi evidenziati in giallo nel file: in questo caso erano di vario genere, ma prevalentemente si trattava di nodi culturali o freddure apparentemente intra­ducibili. Mi sembrava però di aver trovato la voce giusta per la protagonista, voce che in originale è davvero ermetica. Così ho telefonato in casa editrice: «Ho preso decisioni un po’ drastiche» ho detto «vi mando dieci

pagine di tra­ duzione e un file con tutti i gialloni in cui spiego le scelte che ho fatto su ogni parola». Insomma, il prima e il dopo, il backstage. «Mi sembra vada bene la voce» ho aggiunto, «però bisogna “allargare la scarpa”, aumentare l’ambito del significato, altrimenti il lettore italiano, anche il più esperto, rimane un po’ disorientato». La metafora da ciabattino pro­babilmente mi è venuta dopo aver impacchettato le scarpe. Non intendevo “normalizzare” la lingua, ma sciogliere i nodi nel testo, diluirli, per evitare di inserire note che in un testo così breve, con una struttura e un ritmo così particola­ri, non avevano davvero alcun senso. Da ogni paragrafo/scatola ho preso insieme alle parole la frammentarietà, il mistero, la disperazione, gli spazi bian­chi, le risate silenziose, e poi ho rimesso tutto al posto giusto. O comunque ci ho provato. Adesso dovrò fare lo stesso con gli scatoloni pieni di whatever da svuotare nella casa nuo­va. Ma ci sono tanti piccoli modi per trovare conforto nel caos, che è un po’ la morale di Tempo variabile.