Paradisi minori (Megan Mayhew Bergman)

La traduzione di questo libro è nata da una catena di gentilezze.

Un amico ha postato la copertina su Facebook  e mi ha detto che era bellissimo (amico, tu sai). L’ho ordinato, l’ho letto, l’ho proposto a NN e ho scoperto che ne stavano già leggendo un altro, sempre di Megan Mayhew Bergman, e piaceva parecchio.

E poi quando lo leggi scopri che contiene una gran­de quantità di gentilezza. È la gentilezza umanista, quel­la di Vonnegut, ma anche di Saunders, o di Poissant. Per Vonnegut, l’unica regola da sapere quando si viene al mon­do è ricordarsi di essere gentili:

Qui fa un caldo boia d’estate e un freddo cane d’inverno. È un pia­neta tondo, umido e affollato. Se ti va bene, hai un centinaio di anni da vivere. E di regola io ne conosco una sola: bisogna essere gentili, cazzo!

Un altro motivo per cui mi è tornato in mente Vonnegut così spesso è il suo costante riferimento alle nostre responsabilità nei confronti del pianeta e degli animali, che trattiamo sempre con sprezzo: un tema più che mai attuale, purtroppo, e che ricorre spesso anche in Paradisi Minori. “Siamo animali terribili. Penso che il sistema immunitario della Terra stia cercando di sbaraz­zarsi di noi, e farebbe soltanto bene” dice Kurt Vonnegut.

Poi mi sono ricordata di questa sua poesia bellissima:

Alla tigre tocca cacciare

All’uccello tocca volare

All’uomo tocca chiedersi:

Perché? Perché? Perché?”

Alla tigre tocca dormire

All’uccello tocca posarsi

E all’uomo raccontarsi

che è ancora in grado di capire.

Ci sono tante persone che si fanno domande e cercano di capire, nei racconti di Megan Mayhew Bergman.

E ci sono tanti animali, come nelle favole classiche, ma le sue non sono favole, e non hanno una morale. Però c’è qualcos’altro, che è una specie di morale del cuore, di rivela­zione, di speranza. Come la frase finale del primo racconto. “La verità è che siamo pazzi, malati d’amore, tutti quanti”.

Paradisi Minori è popolato di animali veri, pulsanti, ama­ti e odiati, teneri e crudeli, ma non sono sullo sfondo, parte­cipano: mordono, soffrono, attaccano, difendono, cercano calore umano. Però i protagonisti veri sono i rapporti tra ma­dri e figli, tra donne e uomini, tra figlie e padri, insomma tra i poveri umani impegnati nella missione in assoluto più difficile, relazionarsi con chi si ama.

C’è un pennuto, odiato da una giovane donna e amato da sua madre, che è vedova e ora non c’è più. Quel pappagallo africano grigio, che imita chiunque e specialmente la sua adorata padrona, ha dentro la voce di sua madre. E la don­na parte, con il suo bambino, per cercarlo nello squallido zoo dove è finito, perché vuole sentire di nuovo quella voce.

Mi rendo conto di aver disperatamente bisogno di un pezzo di mia madre. Un suono, un odore, un oggetto, qualsiasi cosa.  Rivoglio la persona che mi ha partorito. Il suo corpo, l’ho capito quando sono diventata madre, era una rete di terminazioni nervose che correvano dritte al cuore, finché il cuore non si è intorpidito per l’usura, o forse non ha sentito più nulla.

C’è una donna incinta, il marito è veterinario, lei lo aiuta, vivono circondati di animali malati. Lei sa che diventerà feroce come un giaguaro pur di difendere il bambino che nascerà.

Sarei andata in congedo di maternità e lui sarebbe tornato a casa tardi per cena. Mi sarebbe uscito il latte sentendo il gatto miagolare alla luna dalla finestra sulle scale. Mi sarei svegliata con le lenzuola appicci­cose. Avrei amato e brontolato con uguale intensità.

Io guardavo un cuore piccolo ma veloce battere tra le costole sfocate di nostra figlia. Spero che non ti si spezzi mai, dissi, anche se sapevo che si sarebbe spezzato eccome, mille volte.

C’è un’alcolista che fa la volontaria nel Centro lemuri e riesce ad amare quegli strani animaletti come non è mai riuscita ad amare sua figlia.

Avrei voluto toccarle [le sue dita], ma non mi sentivo all’altezza. Ave­vo paura di passarle qualcosa di brutto, che ereditasse le mie insicurezze, le mie manie.

 E c’è una donna che, nonostante abbia militato per anni contro la procreazione per favorire la salvezza del piane­ta, e nonostante il fatto che il suo compagno non voglia affatto riprodursi, decide di tenere quel bambino arrivato inaspettatamente, anche da sola, e lo farà, come la mamma balena che quando il balenottero nasce lo spinge con un colpetto verso la superficie, per farlo respirare.

Immaginai la mamma balena, stremata dal travaglio, che spingeva il suo piccolo in su, verso la pelle dell’acqua. Il miracolo del respiro nonostante i predatori, il miracolo della vita sulla rotta delle baleniere.

Questo libro non parla di cose gentili e delicate. Parla di persone che sono un po’ animali, e di animali che sono un po’ persone. Parla di cose grandi e forti come una balena o un lupo – maternità, malattia, sopravvivenza, nascita, mor­te – ma anche fragili, che fanno tenerezza, come un lemure infreddolito. Le parole di Megan Mayhew Bergman sono così, forti e delicate insieme, e vanno maneggiate con cura e rispetto. Spero di esserci riuscita.

Anche la scrittrice è una persona gentile, si capisce da come sceglie le parole, non solo nei racconti, ma anche nelle mail. Non gliel’ho ancora chiesto, ma penso che Vonnegut sia tra le sue fonti d’ispirazione. Mi piacerebbe conoscerla e ringraziarla, un giorno, perché le sue storie sono piene di regali.